Commento esegetico alle letture della 28ª domenica del Tempo Ordinario – Anno C
Possiamo correre il pericolo di ridurre il messaggio del Vangelo ad una lezione di galateo: bisogna ricordarci di dire grazie a chi ci ha beneficato… Il lebbroso samaritano è additato a volte a modello di riconoscenza e nulla più. Interpretata in questo modo, la scena con cui si chiude il racconto – un gruppo di persone inspiegabilmente scortesi e un Gesù rabbuiato – comunica tristezza più che gioia, mentre da ogni pagina del Vangelo noi ci attendiamo soltanto gioia. Il tema non è la riconoscenza.
Gesù rimane sorpreso: un samaritano – eretico, miscredente – ha avuto un’intuizione teologica che nove giùdei, figli del suo popolo, educati nella fede e conoscitori delle scritture, non hanno avuto. Lungo il cammino, tutti e dieci si sono resi conto che Gesù era un guaritore. La grande notizia doveva essere subito annunciata alle guide spirituali di Israele: Dio ha visitato il suo popolo, ha inviato un profeta pari a Eliseo. Fin qui ci sono arrivati tutti e dieci.
Solo nella mente e nel cuore del samaritano è brillata una luce nuova: ha capito che Gesù era più che un guaritore. Nel suo gesto di salvezza ha colto il messaggio di Dio. Lui, l’eretico che non credeva nei profeti, ha sorprendentemente intuito, per primo, che Dio ha inviato colui che i profeti hanno annunciato, colui che apre gli occhi ai ciechi e le orecchie ai sordi, che fa camminare gli storpi, risuscita i morti e sana i lebbrosi (Lc 7,22).
È stato il primo a intuire che non è vero che Dio sta lontano dai lebbrosi, che gli sfugge, che li rigetta. Ha intuito che cosa doveva dire a coloro che istituzionalizzano, in nome di Dio, le emarginazioni dei lebbrosi: fatela finita con la religione che esclude, che giudica, che condanna le persone impure!
In Gesù, il Signore è apparso in mezzo a loro, le tocca e le risana.
Il messaggio di gioia è questo: gli impuri, gli eretici, gli emarginati non solo non vengono allontanati da Dio, ma giungono a lui e a Cristo prima e in modo più autentico degli altri.
Prima lettura (2Re 5,14-17)
L’antefatto: siamo nella seconda metà del IX secolo a.C.. damasco ha esteso il suo dominio sulla maggior parte della Siria e della Palestina e il personaggio più in vista e stimato del regno è Naman, il comandante in capo dell’esercito.
Costui sarebbe l’uomo più felice e fortunato se non fosse affetto dalla lebbra, la terribile malattia ritenuta uno dei peggiori castighi di Dio.
Un giorno una ragazza di Israele, rapita durante una razzia, gli rivela che nella sua terra un profeta opera guarigioni straordinarie. È Eliseo, il discepolo di Elia.
Naaman va a trovarlo, ma quando sta per giungere alla casa dell’uomo di Dio, gli viene incontro un suo servo che gli ingiunge di andare a lavarsi sette volte nell’acqua del fiume Giordano.
Naaman si indigna. Si aspettava da Eliseo il compimento di qualche rito, un’invocazione al suo Dio, l’imposizione delle mani. Niente di tutto questo, Eliseo non si è neppure degnato di venirlo a salutare. Imprecando, sta per allontanarsi quando i suoi servi gli si avvicinano e gli fanno un ragionamento elementare: se il profeta ti avesse ordinato qualcosa di difficile, certo l’avresti fatto. Perché non mettere in pratica un comando tanto semplice?
A questo punto della storia si inserisce la nostra lettura: Naaman scende al Giordano, si lava sette volte e la sua carne diviene come quella di un giovanetto; è guarito (v. 14).
Torna indietro per ringraziare Eliseo con un regalo, ma questi si rifiuta di riceverlo: non vuole che sorgano equivoci. La guarigione non deve essere attribuita a lui, ma al Signore. Naaman capisce ed esclama: “Ora sono convinto che su tutta la terra non c’è che il Dio di Israele “ (vv.15-16), d’ora in poi non adorerò altri dei all’infuori del Signore. Per questo chiede il permesso di portare con sé un po’ di “terra santa“ per costruire, nella sua città, un altare al Signore (V.17).
Naaman è curato non solo dalla lebbra del corpo, ma anche da quella dell’anima. Dal paganesimo è passato alla fede nell’unico, vero Dio. Ambedue le guarigioni gli sono state concesse gratuitamente: sono state un dono del Signore.
La lettura termina qui, ma il racconto non è finito e credo valga la pena ricordare come si è concluso il dialogo fra Eliseo e Naaman. Questi – come abbiamo visto – ha preso la decisione di adorare il Signore, tuttavia il suo cammino di fede è solo agli inizi. Si rende subito conto che ci sono delle difficoltà. Un problema morale lo inquieta, non gli lascia la coscienza tranquilla: vuole esporlo a Eliseo, che già considera la sua guida spirituale. Ascoltiamo la sua commovente confessione.
Nella mia terra – dice – io ho l’incombenza di accompagnare il re durante le cerimonie pagane nel tempio di Rimmon. Quando si inginocchia davanti alla statua del Dio, il sovrano si appoggia al mio braccio e anch’io mi devo prostrare. Tornando a Damasco, riprenderò questo servizio e, anche se a malincuore, dovrò compiere un gesto di idolatria. Insomma, so che commetterò un peccato, ma è “inevitabile”.
Naaman non pretende che Eliseo approvi la sua azione, chiede solo un po’ di comprensione per la sua debolezza (v.18).
Apprezziamo la sincerità con cui riconosce la sua fragilità, ma che cosa rispondergli? Come mettere d’accordo la coerenza con i principi morali e la misericordia verso il peccatore?
La soluzione più facile per Eliseo sarebbe quella di trincerarsi dietro le disposizioni giuridiche, applicare freddamente le norme e – se occorre – minacciare chi si permette di ipotizzare una vita di compromessi e di incoerenze. Ma Eliseo che è un vero pastore d’anime, non si comporta in questo modo. Conosce i principi, ma sa di trovarsi di fronte a un uomo in difficoltà dal quale sarebbe insensato pretendere immediatamente la perfezione.
Ma va’ in pace! – gli dice. E possiamo immaginare che abbia accompagnato le sue parole con un sorriso, quel sorriso amico di chi ha capito le angosce e i drammi spirituali che gli sono stati confidati.
Seconda lettura (2Tm 2,8-13)
Quando scrive la seconda Lettera a Timoteo, Paolo si trova in prigione a Roma. Ha già subito un primo processo durante il quale nessuno ha avuto il coraggio di presentarsi a testimoniare in suo favore (2Tm 4,16). Molti amici lo hanno abbandonato o addirittura si sono schierati contro di lui (2Tm 4,9-15). I pagani lo considerano un malfattore e i giùdei un traditore. Questa è la sorte che attende chiunque si dedichi lealmente alla causa del Vangelo!
Che cosa consola l’Apostolo in questa situazione difficile? Il pensiero che anche Cristo è passato attraverso le stesse sofferenze e incomprensioni prima di entrare nella gloria del Padre. Per questo dice a Timoteo e anche a se stesso: “Ricordati di Gesù Cristo!“ (v.8). Per giungere alla salvezza è necessario percorrere il suo stesso cammino: “Se moriamo con lui, vivremo anche con lui, se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo “ (vv. 11-12).
Ciò che è accaduto a Paolo e a Gesù si ripete nella vita di ogni autentico discepolo. Chi si impegna in favore della propria comunità, deve mettere in conto anche le critiche, le incomprensioni e addirittura le persecuzioni, ma, pur nelle difficoltà, deve coltivare la serenità e la gioia, certo che il messaggio di amore e di pace che annuncia, porterà frutti abbondanti. “La parola di Dio, infatti, non è incatenata” (v.9).
Vangelo (Lc 17,11-19)
Si diceva al tempo di Gesù: “Quattro categorie di persone sono equiparate a un morto: il povero, il lebbroso, il cieco e colui che è senza figli“.
I lebbrosi non potevano avvicinarsi ai villaggi e i luoghi in cui abitavano erano considerati impuri, come i cimiteri. Alcuni rabbini dichiaravano che, se avessero incontrato un lebbroso, lo avrebbero preso a sassate e gli avrebbero gridato: “Torna al tuo posto e non contaminare le altre persone!“.
Tutte le malattie erano ritenute un castigo per i peccati, ma la lebbra era il simbolo stesso del peccato. Dio se ne serviva – si diceva – per colpire soprattutto gli invidiosi, gli arroganti, i ladri, i responsabili di omicidi, di falsi giuramenti e incesti.
La guarigione dalla lebbra era un miracolo paragonabile alla risurrezione di un morto, solo il Signore la poteva curare, prima però dovevano essere espiate tutte le colpe che l’avevano provocata.
I lebbrosi si sentivano per questo rifiutati da tutti: dagli uomini e da Dio.
Essendo queste le consuetudini e la mentalità, si capisce la ragione per cui i dieci lebbrosi si sono fermati a distanza e, da lontano, hanno gridato: “Gesù maestro, abbi pietà di noi!“ (v. 13).
Si noti bene: non gli chiedono la guarigione, ma solo che senta compassione, che si intenerisca di fronte alla loro condizione disperata. Forse si aspettano soltanto l’elemosina.
Gesù, appena li vede dice: “ Andate a presentarvi ai sacerdoti “ (v.14). La legge stabiliva che, chi guariva da questa malattia, si doveva presentare a un sacerdote il quale, dopo le opportune verifiche, decideva se riammetterlo o no nella comunità (Lv 14,2-7). I dieci lebbrosi dunque se ne vanno e, lungo la strada, si sentono curati.
C’è qualcosa di singolare in questo miracolo: la guarigione non avviene immediatamente. La lebbra scompare in seguito, quando i malati sono lungo il cammino e questo rende l’episodio molto simile al racconto che abbiamo trovato nella prima lettura. Anche Naaman guarisce dopo essersi allontanato da Eliseo.
Vedendosi curato, uno dei dieci lebbrosi torna indietro e, trovato il Maestro, gli si getta ai piedi per ringraziarlo.
È un samaritano.
Gesù si meraviglia che solo costui, uno straniero, abbia sentito il bisogno di rendere gloria a Dio. Lo solleva e gli dice: “alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!“.
Questo il fatto. Qual è il messaggio? Per coglierlo concentriamoci su alcuni dettagli significativi.
Notiamo anzitutto che non si parla di uno, ma di dieci lebbrosi e Luca non sottolinea questo particolare solo per dovere di cronaca. Il numero dieci nella Bibbia ha un valore simbolico: indica la totalità (sono dieci le dita delle mani). I lebbrosi del Vangelo rappresentano dunque tutto il popolo, l’intera umanità lontana da Dio. Tutti – vuole dirci Luca – siamo lebbrosi e abbiamo bisogno di incontrare Gesù. Nessuno è puro, tutti portiamo sulla nostra pelle segni di morte che soltanto la parola di Cristo può sanare.
Chi non prende coscienza della propria condizione di peccatore, finisce per ritenersi un giusto e in diritto di condannare altri all’emarginazione.
Dio non ha creato due mondi: uno per i buoni e l’altro per i malvagi, ma – sia nel presente che nel futuro – un unico mondo in cui chiama a vivere insieme tutti i suoi figli, tutti i peccatori salvati dal suo amore.
Il medesimo messaggio è contenuto in un secondo particolare: la lebbra mette insieme giudei e samaritani, unisce cioè persone che, quando sono in buona salute, si disprezzano, si odiano, si combattono. La presa di coscienza della comune disgrazia e del comune dolore li ha resi amici e solidali.
È esattamente ciò che accade nel campo spirituale: se qualcuno si ritiene giusto e perfetto, inevitabilmente innalza barriere e steccati per proteggersi dai “lebbrosi“. Chi invece si rende conto di essere egli stesso un lebbroso, non si sente superiore, non giudica, non allontana, non disprezza, si sente solidale nel bene e nel male con i fratelli.
Gesù non ha paura di essere considerato un peccatore, non è un “fariseo“ che si allontana da chi è impuro. Al termine del racconto della guarigione di un lebbroso, l’evangelista Marco nota che, dopo aver steso la mano e averlo curato, egli “non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori in luoghi deserti“ (Mc 145). Accarezzando il lebbroso, sapeva di compiere un gesto che lo avrebbe reso immondo e che per questo avrebbe dovuto allontanarsi dalla società dei puri. Lo ha accarezzato ugualmente perché aveva scelto di condividere la condizione degli emarginati, degli esclusi, dei reietti.
Anche il terzo particolare insiste sulla solidarietà fra gli uomini: i dieci lebbrosi non cercano di salvarsi ognuno per proprio conto. Vanno insieme alla ricerca di Gesù. La loro preghiera è comunitaria: “Gesù, maestro, tu che comprendi la nostra condizione, abbi pietà di noi“.
Questa invocazione è una condanna di quella pseudo spiritualità individualistica e intimistica che ha predicato la ricerca della “salvezza della propria anima“. La salvezza può essere raggiunta solo assieme ai fratelli.
I grandi personaggi della Bibbia sono sempre stati solidali con il loro popolo. Azaria, il giovane dalla vita integra ed esemplare, prega: “Noi abbiamo peccato (non dice: “essi hanno peccato“), noi abbiamo agito da iniqui, allontanandoci da te, abbiamo mancato in ogni modo, non abbiamo fatto quanto ci avevi ordinato per il nostro bene“ (Dan 3,29-30); Mosé si rivolge al Signore dicendo: “Perdona il loro peccato, se no cancellami dal tuo libro che hai scritto“ (Es 32,32) e Paolo arriva a pronunciare una frase paradossale: “Vorrei essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne (Rm 9,3).
In Paradiso nessuno, nemmeno Dio che ci ama con amore viscerale di Padre, può essere felice finché anche l’ultimo degli uomini non sia liberato dalla “lebbra” che lo tiene lontano dal Signore e dai fratelli. Un quarto particolare del racconto è un invito a riflettere sull’efficacia salvifica della parola pronunciata da Gesù. I lebbrosi lo invocano da lontano (vv 11-12). Non possono avvicinarsi a lui. Riuscirà egli a percepire il loro grido disperato?
Potrà fare qualcosa in loro favore o la distanza gli impedirà di intervenire?
Questi i dubbi, i timori che angustiano non solo i dieci lebbrosi, ma anche i cristiani delle comunità di Luca – che non hanno avuto la fortuna di “avvicinarsi“ materialmente al Maestro – sono i dubbi che bloccano anche noi.
Siamo convinti che quando Gesù era vicino, quando camminava lungo le strade della Palestina, quando si poteva avvicinarlo, toccarlo, parlargli, egli prestava attenzione a tutti, ascoltava ogni richiesta di aiuto e, con la sua parola, curava ogni malattia. Ma ora che egli non è più visibilmente in questo mondo, ora che è “lontano“, egli tende l’orecchio verso di noi? Si interessa ancora della nostra “lebbra“? È capace di salvare anche “a distanza”?
La risposta che Luca dà ai suoi cristiani e a noi è semplice: non c’è distanza che possa impedire alle nostre preghiere di giungere fino a lui, non c’è situazione disperata che, con la sua parola, anche pronunciata “da lontano“, egli non possa risolvere. La parola che cura ogni “lebbra“ continua a essere annunciata oggi e mantiene intatta la sua efficacia. Basta fidarsi, come ha fatto il lebbroso samaritano al quale Gesù riconosce: “ la tua fede ti ha salvato “(v. 19).
I dieci lebbrosi vengono curati lungo la strada. Come mai Gesù non li guarisce immediatamente – come è solito fare – e li manda dai sacerdoti in seguito per la verifica prescritta dalla legge? Voleva mettere alla prova la loro riconoscenza?
A questo dettaglio dell’episodio è certamente legato un messaggio teologico. Nel Nuovo Testamento, la vita cristiana è paragonata a un “itinerario“, a un viaggio lungo e faticoso. La guarigione dalle “lebbre“ che ci fanno sentire lontani da Dio, rifiutati dai fratelli e disprezzati dalla nostra stessa coscienza – lo sappiamo e lo verifichiamo ogni giorno – non avviene di colpo, è progressiva, richiede un’intera vita. È questo il cammino che Gesù invita a percorrere con pazienza, serenità, ottimismo, guidati in ogni passo dalla sua parola. Lungo la strada chi ha fede verificherà il prodigio: gradualmente vedrà “la sua pelle divenire come quella di un giovinetto“ – come è accaduto a Naaman.
Siamo così arrivati al punto più difficile del racconto: perché uno solo è tornato a ringraziare? Perché Gesù si è lamentato del comportamento degli altri nove, quando lui stesso aveva ordinato di andare a mostrarsi ai sacerdoti? Chi ha disobbedito, non è stato forse il samaritano?
Diciamolo subito: sicuramente anche gli altri nove saranno poi tornati a ringraziare. Essi sono prima andati dai sacerdoti per sbrigare le “formalità” delle verifiche ed essere riammessi alla vita comunitaria. Poi sono corsi dalle loro famiglie e sono certamente tornati da Gesù. È questa l’unica ricostruzione dei fatti che ha una logica. Allora perché Gesù si è lamentato?
Egli non parla di ringraziamenti, non si rattrista perché ha verificato una mancanza di riconoscenza. Dice che il samaritano è stato l’unico che ha dato gloria a Dio, cioè, l’unico che ha capito subito che la salvezza di Dio giunge agli uomini attraverso Gesù. È stato l’unico che ha riconosciuto non solo il bene ricevuto, ma anche l’intermediario scelto da Dio per comunicare i suoi doni. Ha voluto proclamare davanti a tutti la sua riconoscenza e la sua scoperta.
Gli altri non erano cattivi, solo non si sono resi immediatamente conto della novità. Hanno continuato a seguire i cammini tradizionali: hanno pensato che a Dio si arrivava attraverso le pratiche religiose antiche, attraverso i sacerdoti del tempio.
Gesù rimane sorpreso che la gente del suo popolo, pur abituata a leggere le sacre Scritture ed educata dai profeti, sia stata preceduta da un samaritano nel riconoscimento del Messia di Dio.
Il fatto della guarigione dei dieci lebbrosi è riletto da Luca come una parabola, come un’immagine di quanto è accaduto al suo tempo: gli eretici, i pagani, i peccatori sono stati tra i primi a riconoscere in Gesù il mediatore della salvezza di Dio.