Spunti di riflessione sul vangelo di Domenica 16 ottobre 2022.
di Padre Maurizio Raimondo.
Un saggio dell’Antico Testamento riassume così l’esperienza accumulata durante la vita: “Sono stato fanciullo e ora sono vecchio, ma non ho mai visto il giusto abbandonato, né i suoi figli mendicare il pane…il Signore ama la giustizia e non abbandona i suoi fedeli. Gli empi saranno distrutti per sempre“ (Sal 37,25. 28). Belle parole, ma ce la sentiremmo di sottoscriverle senza avanzare qualche riserva? Chi non conosce esempi che le contraddicono? Due domeniche fa abbiamo sentito Abacuc lamentarsi con Dio. Nel paese – diceva – dominano i malfattori, si commette ogni sorta di ingiustizia e tu, Signore, non intervieni.
Nella Bibbia si trovano stupende invocazioni a Dio per chiedere il suo intervento, quando sulla terra la vita diventa intollerabile. Il salmista implora: “Signore tu vedi. Rompi il tuo silenzio! Dio, da me non stare lontano. Destati, svegliati, vieni in mia difesa, per la mia causa, Signore mio Dio“ (Sal 35,22-23). Nell’apocalisse i martiri innalzano al Signore il loro grido: “fino a quando, sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?“ (Ap 6,10).
Come mai Dio non risponde sempre e subito a queste suppliche? Se, pur potendo, egli non pone fine all’ingiustizia, può forse essere considerato innocente? Come si giustifica il suo silenzio?
Prima lettura (Es 17,8-13a)
Gli amaleciti erano una tribù nomade che viveva nelle regioni desolate del deserto del Sinai. Pochi popoli sono stati studiati dagli israeliti quanto loro. Avevano commesso un crimine imperdonabile. Gli israeliti che erano in cammino verso la Terra Promessa, dovevano attraversare il loro territorio. Stanchi per il viaggio, chiedevano solo un po’ d’acqua e gli amaleciti, invece di aiutarli, li assalirono e uccisero i più deboli della retroguardia della carovana (Dt 25,17-19).
La lettura di oggi si riferisce a uno dei primi scontri avvenuti con questa tribù. Dice il testo che Mosé ordinò a Giosuè di attaccarli, mentre egli, assieme ad Aronne e a Hur, sarebbe salito sul monte per invocare l’aiuto di Dio (vv. 12-13). Accadde allora che, mentre Mosé stava con le mani alzate in preghiera, Giosuè vinceva, ma non appena, per la stanchezza, egli le lasciava cadere, gli amaleciti avevano la meglio (v. 11). Come riuscire a mantenere sempre elevate in preghiera le braccia di Mosé? Aaron e Hur trovarono la soluzione: posero Mosé seduto su di una pietra ed essi, uno a destra e l’altro a sinistra, gliele sostennero. Rimasero così fino a sera e Israele sbaragliò gli Amaleciti.
Il brano biblico non vuole essere un invito a chiedere a Dio la forza per uccidere i nemici!
I popoli dell’antichità ritenevano che gli dei combattessero a fianco del popolo che li adorava. Noi oggi, istruiti da Gesù, sappiamo che questa è una concezione di Dio arcaica e rozza. L’episodio narrato nella lettura è stato inserito nella Bibbia perché ha un messaggio teologico: ci insegna che chi vuole raggiungere obiettivi superiori alle sue forze, deve pregare… senza stancarsi.
Ci sono risultati che non possono essere ottenuti se non mediante la preghiera. Ci confrontiamo con nemici che ci impediscono di vivere, che ci tolgono il respiro: l’ambizione, l’odio, le passioni sregolate.
Se per un solo momento lasciamo cadere le braccia, se interrompiamo la preghiera, immediatamente questi nemici prendono il sopravvento e a noi non rimane che rassegnarci alla drammatica esperienza della sconfitta. Le braccia vanno mantenute alzate… fino a sera, fino al termine della vita, senza stancarci.
Seconda lettura (2Tm 3,14-4,2)
Per quali valori vale la pena giocarci la vita? Quali principi inculcare nei figli? Dovranno essere educati a competere e a sopraffare o ad aiutare i più deboli? Che valore dare al denaro, alla famiglia, ai figli, alla salute, alla propria immagine sociale, al successo? Le risposte a questi interrogativi sono molte e divergenti. Qual è quella giusta?
Le soluzioni proposte dagli uomini sono incerte e mutevoli, condizionate spesso più dalla moda che da solide motivazioni.
Paolo suggerisce a Timoteo il punto di riferimento sicuro: le sacre scritture. Per convincerlo gli richiama il legame anche affettivo, che lo lega alla fede. Gli ricorda che in essa è stato educato fin dall’infanzia, “fede schietta che fu prima nella tua nonna Loide, poi in tua madre Eunice” (2Tm 1,5).
Continuando, spiega il valore della sacra Scrittura. Essa – dice – “è ispirata da Dio ed è utile per insegnare, convincere, corregere e formare alla giustizia perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona “ (vv. 14-16).
Chi ha trovato questo tesoro, non può nasconderlo o considerarlo un bene da godere in solitudine, deve comunicare la sua scoperta ai fratelli.
Paolo scongiura Timoteo – e attraverso lui tutti gli animatori delle comunità – di approfittare di ogni occasione per conoscere il Vangelo (2Tm 4,1-2).
L’Apostolo è preoccupato che la fede dei discepoli venga adeguatamente alimentata. Non con dottrine avariate, ma con l’unico cibo nutriente e solido: la parola di Dio, contenuta nei testi sacri. Negli stessi anni Pietro, rivolgendosi ai neofiti, impiega un’altra immagine commovente: paragona questa Parola al latte che la madre Chiesa offre ai suoi figli. Dice: “come i bambini appena nati, bramate il puro latte spirituale, per crescere con esso verso la salvezza“ (1Pt2,2).
È un invito a tutte le comunità a non ridurre la vita cristiana a semplici devozioni, alla ripetizione di riti e cerimonie religiose, ma a dare importanza allo studio sistematico, attento e quindi alla meditazione della sacra Scrittura.
Segue:
Vangelo (Lc 18,1-8)
La preghiera non può essere un modo per forzare Dio a fare la nostra volontà. Perché allora siamo invitati a rivolgerci a lui con insistenza? Che senso ha la preghiera? A queste domande Gesù risponde oggi con una parabola (vv.1-5) e con un’applicazione alla vita della comunità (vv.6-8). La parabola comincia con la presentazione dei personaggi.
Il primo è un giudice il cui compito dovrebbe essere quello di proteggere i deboli e gli indifesi, invece è un senza Dio, uno che non prova sentimenti di pietà (v.2). Egli stesso, nel suo soliloquio, riconosce che la cattiva reputazione che si è fatto è del tutto giustificata: “Non temo Dio – dice – e non ho rispetto per nessuno“ (v. 4). La descrizione che Gesù fa di quest’uomo è quanto mai realistica. Viene da pensare che si riferisca a qualche caso di sfacciata ingiustizia di cui ha sentito parlare o è stato testimone.
Il secondo personaggio è la vedova. Nella letteratura dell’antico Medio Oriente e nella Bibbia è il simbolo della persona indifesa, esposta ai soprusi, vittima di soperchierie, che non può ricorrere a nessuno se non al Signore. Il Siracide si commuove di fronte alla sua condizione e minaccia chi abusa di lei: “Il Signore è giudice. Egli ascolta la supplica dell’oppresso e non trascura le grida dell’orfano o della vedova quando si sfoga nel suo lamento, mentre le lacrime le rigano le guance e il gemito si aggiunge alle lacrime. Il suo dolore ottiene il favore di Dio e il suo grido attraversa le nubi “Sir 35,14-21).
Nella parabola è messaggio in scena una vedova che ha subito ingiustizia. Forse è stata ingannata in un trapasso dell’eredità o è stata vittima di qualche raggiro, forse qualcuno ha sfruttato il suo lavoro, certo ha subito un torto e rivendica i suoi diritti, ma nessuno le dà retta. Non ha i soldi per pagarsi un avvocato, né conosce qualcuno che possa perorare la sua causa, nessuno cui possa raccomandarsi. Ha in mano una sola carta e la gioca: importuna il giudice, andando e ritornando da lui in continuità, con ostinazione, a costo di sembrare indiscreta (v.3).
Dopo aver presentato i due personaggi la parabola continua con il soliloquio del magistrato il quale un giorno decide di dare soluzione al caso. Non perché si è reso conto del suo comportamento scorretto, è solo stanco e infastidito dall’insistenza della donna. Dice: questa vedova è troppo molesta, mi importuna, è diventata insopportabile (vv. 4-5).
La parabola si conclude qui. I versetti seguenti (vv. 6-8) contengono un’attualizzazione. Li commenteremo più avanti. Prima vediamo di cogliere il senso e il messaggio della parabola.
Chi rappresenta il giudice iniquo? La risposta sembra scontata, anche se è piuttosto imbarazzante: è Dio. Invece non è così! Questo personaggio di in realtà è secondario, è introdotto solo per creare la situazione insostenibile in cui è coinvolta la vedova. E’ su questa situazione che Gesù vuole richiamate l’attenzione. Essa è la condizione in cui i discepoli si vengono a trovare in questo mondo, che è ancora dominato dal maligno e profondamente segnato dalla morte.
Al tempo di Gesù l’ingiustizia si concretizzava in sistemi oppressivi politici, sociali e religiosi. Oggi le cose non sembrano essere molto cambiate con soprusi, frodi ai danni dei più poveri e anche da avvenimenti inspiegabili, assurdi che ci turbano e che sono contrari al nostro anelito di vita che macchiano persino il volto della stessa Chiesa.
Che fare in queste situazioni?
Ecco il messaggio della parabola: pregare. Gesù l’ha raccontata – dice l’evangelista – per inculcare la convinzione che è necessario pregare sempre, senza stancarsi (v.1).
La preghiera è il grande mezzo per non perdere la testa anche nei momenti più difficili e drammatici, quando tutto sembra congiurare contro di noi e contro il regno di Dio.
Come si fa a pregare sempre? La preghiera non va identificata con la monotona ripetizione di formule che a volte snervano chi le recita, il prossimo che le ascolta e – credo – anche Dio che si annoia certamente a sentirle, se non sono espressione di un autentico sentimento del cuore (cf. Am 5,23). Gesù ha richiamato i discepoli a non fare come i pagani che credono di venire ascoltati a forza di parole (Mt 6,7).
La preghiera vera, quella che non deve mai essere interrotta, consiste nel mantenersi in costante dialogo con il Signore. Il dialogo con lui ci fa valutare la realtà, gli avvenimenti, gli uomini con i suoi criteri di giudizio. Vagliamo con lui i nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre reazioni, i nostri progetti.
Pregare sempre significa non prendere alcuna decisione senza aver prima consultato lui. Se anche per un solo istante si dovesse interrompere questo rapporto con Dio, se – per usare l’immagine della prima lettura – si lasciano cadere le braccia, immediatamente i nemici della vita e della libertà prendono il sopravvento. Nemici che si chiamano passioni, pulsioni incontrollate, reazioni istintive. Si creano le premesse per le scelte insensate.
È la preghiera che permette, ad esempio, di controllare l’impazienza nel volere instaurare il regno di Dio a tutti i costi e ricorrendo a qualunque mezzo. È la preghiera che ci impedisce di forzare le coscienze e ci insegna a rispettare la libertà di ogni persona.
La conclusione del brano (vv.6-8)è piuttosto enigmatica. L’ultima frase: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?“ Sembra insinuare il dubbio sul successo finale dell’opera di Cristo. Per comprenderla è necessario verificare chi sta parlando e chi sono i destinatari del messaggio, poi si deve anche apportare (come spesso purtroppo è necessario), una correzione alla traduzione.
Chi prende la parola è il Signore che nel Vangelo di Luca indica il Risorto. Si rivolge agli eletti che sono i cristiani perseguitati delle comunità di Luca. È ai loro interrogativi angoscianti che si vuole dare una risposta.
Siamo negli anni 80 e in Asia Minore è iniziata una persecuzione subdola più che violenta. Domiziano pretende che tutti lo adorino come un Dio. L’istituzione religiosa pagana, servile e adulatrice, si è subito adeguata e asseconda le eccentricità maniacali del sovrano. I cristiani no. Non possono – come dice il libro dell’Apocalisse (Ap 13) – inchinarsi davanti alla “bestia“ (il divo Domiziano) e per questo subiscono angherie e discriminazioni.
Ora risulta chiaro chi è la vedova della parabola: è la chiesa di Luca, la chiesa cui è stato sottratto lo Sposo, è la comunità che attende la sua venuta, anche se non conosce né il giorno né l’ora del suo ritorno e che ogni giorno, con insistenza, implora: “Vieni Signore Gesù“ (Ap 22,20).
A questa invocazione il Signore dà una risposta consolante, con una domanda retorica (E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che giorno e notte gridano a lui?) Seguita da un’affermazione perentoria (Sì, vi dico: egli farà loro giustizia e molto presto! Anche se li fa a lungo aspettare). Abbiamo tolto alla fine il punto interrogativo. Questa traduzione del testo senza interpolazione di punti né rende più fedele il senso stesso. La maggior tentazione dei cristiani sono lo scoraggiamento e la sfiducia di fronte alla lunga attesa dello Sposo che tarda a manifestarsi, che tollera l’ingiustizia.
L’ultima frase: “Ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?“ Non si riferisce alla fine del mondo, ma alla venuta salvatrice di Cristo in questo mondo.
Di fronte all’inspiegabile lentezza del giudice, la vedova avrebbe potuto rassegnarsi e disperare di poter un giorno ottenere giustizia. Il Signore vuole mettere in guardia la comunità cristiana contro il pericolo rappresentato dallo scoraggiamento, dalla rassegnazione, dal pensiero che lo sposo non torni più a “fare giustizia“. Egli verrà certamente, ma troverà i suoi eletti pronti ad accoglierlo? A qualcuno il suo tardare potrebbe aver fatto perdere la fede?