• 23 Novembre 2024 17:09

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Commento esegetico alle letture della 31ª Domenica del Tempo Ordinario anno – C –

Spunti di Riflessione a Cura del Patriarca Maurizio Raimondo.

Su una tela bianca il nostro sguardo nota subito il puntino nero e lo spruzzo di fango. Per uno strano automatismo i nostri occhi sono immediatamente richiamati dal particolare che deturpa. Accade: un difetto, una manchevolezza, una menomazione divengono spunti per soprannomi, allusioni e battute, a volte innocenti, altre sarcastiche.
Lo sguardo dell’uomo è crudele: si sofferma soprattutto sulle macchie, sui limiti, sugli aspetti deteriori. È così anche lo sguardo di Dio? Se sì , come professa una certa teologia, sono guai per tutti perché “i cieli non sono puri ai suoi occhi; quanto meno un essere abominevole e corrotto, l’uomo che beve l’iniquità come acqua”(Gb 15,15-16).
Dobbiamo avere paura dello sguardo di Dio? Dio ti vede! Ricordiamo questo richiamo usato spesso dagli educatori e dai catechisti del passato come deterrente per prevenire comportamenti errati. Quel triangolo con al centro l’occhio di Dio che ci scrutava, incuteva riverenza e timore.
Il pensiero che forse ci ha sfiorato più volte, è che avremmo fatto volentieri a meno di questo Dio “poliziotto”. È corretto – anche se per ottenere comportamenti buoni – presentare Dio così? Il suo sguardo è quello dell’investigatore che cerca i motivi per condannare o è l’abbraccio tenero del padre che comprende, scusa, coglie sempre e solo ciò che è bello e amabile nei suoi figli?
La risposta a queste domande ci riguarda.

Prima lettura (Sap 11,22-12,2)

La preghiera del mattino d’ogni pio israelita comincia con le parole: “Ricorda Israele!…“.
Israele è un popolo che non dimentica. Ricorda ciò che i suoi padri hanno sofferto in Egitto: sono stati percossi, umiliati, sottoposti a duri lavori; poi il Signore li ha liberati colpendo i loro oppressori con duri castighi.
Questo articolo fondamentale del Credo israelita sembrerebbe un invito a detestare per sempre gli egiziani. Invece, sia nella Bibbia sia nella tradizione giudaica gli egiziani non sono mai esecrati e maledetti.
Non tutti hanno sempre condiviso questi sentimenti nobili. Molti si sono chiesti invece per quale ragione il Signore non li abbia annientati. Perché non li ha colpiti con piaghe ancora più dure? Perché tanta moderazione nei loro confronti?
La lettura riferisce la risposta che un pio israelita, vissuto ad Alessandria d’Egitto pochi anni prima di Cristo, dà a questo interrogativo. A coloro che considerano eccessiva, ingiustificata la pazienza del Signore, egli cerca di far capire le ragioni del suo comportamento.
Ricorda anzitutto che egli ha occhi diversi dai nostri.
Contemplando il cielo stellato e gli astri del firmamento, l’uomo rimane stupito di fronte all’immensità del creato. Dio invece vede “tutto il mondo come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra “ (Sap 11,21-22).
Egli è paziente perché è forte, perché è grande e può tutto (v. 23a).
I deboli aggrediscono con violenza i loro avversari perché hanno paura. Chi è forte non si preoccupa, tollera tutto, non si sente minacciato. Dio ha uno sguardo indulgente e misericordioso perché nulla lo spaventa.
Lascia che gli uomini agiscano con libertà, mantiene sempre la calma, non si spaventa se li vede commettere errori perché è certo che il gioco non gli sfuggirà di mano.
L’intolleranza nei confronti di chi commette peccati, l’aggressione contro chi pensa o si comporta in modo diverso, nascono dall’insicurezza, dalla paura, dalla sensazione che le forze del male possono divenire incontrollabili.
La seconda ragione della moderazione di Dio nei confronti degli egiziani: egli non considera, non vede i peccati degli uomini, in vista del pentimento (v. 23b).
Se castiga, non lo fa per distruggere il peccatore ma per recuperarlo, per condurlo al pentimento. Egli non conosce la vendetta, la rappresaglia, la punizione, ma solo l’amore e la salvezza. Non desidera la morte del peccatore, ma che desista dalla sua cattiva condotta e viva (Ez 18,23).
Un profeta anonimo, vissuto un centinaio d’anni prima, ha annunciato un evento inaudito: la conversione degli assiri e degli egiziani, destinati a formare, insieme con Israele, un unico popolo. Il Signore degli eserciti – dice – li benedirà così: “Benedetto sia l’egiziano mio popolo, l’assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità “(Is 19,25).
L’autore del libro della Sapienza ha assimilato questa mentalità universalistica che il Signore cercava pazientemente di inculcare del suo popolo Israele.
La terza ragione: il Signore osserva con amore tutto il creato perché tutto ciò che esiste è opera sua.
Egli non disprezza nulla di quanto ha fatto. Non odia nessuno, ama tutti: buoni e cattivi, perché tutti sono sue creature e tutti, per il fatto stesso di esistere, portano in sé qualcosa di buono.
Egli è il Signore “amante della vita” (vv. 24-26). I suoi occhi non sono mai accecati dal desiderio di vendetta, come avviene spesso per quelli dell’uomo.
Raccontavano i rabbini che, dopo il passaggio del Mar Rosso, gli angeli avrebbero voluto unire le loro voci a quelle degli israeliti che inneggiavano perché il faraone e la sua armata erano stati sommersi dalle acque. Ma il Signore intervenne e disse: “Come potete cantare mentre i miei figli stanno morendo? I flutti stanno inghiottendo le mie creature e voi volete intonare un cantico?“.
La lettura si chiude con l’interpretazione teologica dei castighi che Dio ha inflitto agli egiziani: non si tratta di castighi, ma di medicine (vv. 12,1-2). Come si fa con le medicine, ha impiegato le piaghe in piccole dosi. Non voleva distruggere, ma ammonire i colpevoli, farli rinsavire, far loro comprendere che erano usciti dal retto cammino, spingerli a rinnegare le loro malvagità e condurli alla fede.

Seconda lettura (2Ts 1,11-2,2)

I cristiani di Tessalonica stanno attraversando un momento piuttosto difficile: nella loro comunità si sono infiltrati alcuni visionari che annunciano come imminente la fine del mondo.
Per diffondere più facilmente le loro insane farneticazioni, questi predicatori affermano di riferire il pensiero di Paolo e, come prova, mostrano alcune lettere che giurano di aver ricevuto da lui (vv. 2,2).
L’Apostolo raccomanda ai cristiani di Tessalonica di stare attenti, di non farsi influenzare da questi fanatici che, invece di annunciare il Vangelo, diffondono “visioni“ e “ispirazioni personali“.
I momenti difficili costituiscono il terreno ideale in cui trovano credito gli allucinati che predicano le loro fantasticherie. Si tratta di gente che vuole sfuggire alle difficoltà della vita.
Paolo prega Dio affinché i tessalonicesi giungono a capire dove sta la verità e chiede che il Signore sia glorificato non mediante chiacchiere di gente illusa, ma dalla testimonianza d’amore concreto di cui danno prova i membri della comunità.

Vangelo (Lc 19,1-10)

Al tempo di Gesù, la gente del popolo prendeva un solo pasto al giorno, la sera: è comprensibile che gli israeliti abbiano immaginato il regno di Dio come una cena eterna dove tutti finalmente avrebbero mangiato a sazietà. La profezia cui facevano riferimento era stata proferita da Isaia:“il Signore preparerà un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati“(Is 25,6).
Siccome poi i banchetti di questo mondo erano un’immagine del mondo futuro, riunire attorno alla stessa mensa giusti e peccatori era ritenuta una bestemmia contro la santità di Dio che li voleva separati. L’esclusione doveva costituire per i malvagi un perentorio richiamo alla conversione.
Questa convinzione era condivisa da tutti in Israele, ciò spiega la sorpresa suscitata dal comportamento di Gesù.
Il brano inizia presentando il Maestro che entra in Gerico e attraversa la città, accompagnato dalla folla e dai discepoli (v.1). All’entrata della città ha appena curato un mendicante cieco che lo supplicava: “Signore, che io riabbia la vista (Lc 18,35-43). L’accostamento di questi due fatti non è casuale. La guarigione del cieco è il “recupero“ di Zaccheo si richiamano e si illuminano a vicenda.
Sia il cieco che Zaccheo desiderano vedere e Gesù che compie per loro un prodigio, capovolge la loro condizione ritenuta irrecuperabile. In ambedue i racconti si parla di una folla che segue il Maestro, ma che non lo comprende, lo critica, si oppone alle sue scelte e alla sua opera salvifica.
Ambedue i racconti infine si chiudono, ricordando gli effetti sconvolgenti – la visione nuova del mondo e della vita – prodotti dall’incontro con la luce, donata da Gesù.
Nel brano di oggi chi cerca di vedere è un pubblicano ricco che si chiama Zaccheo.
Per una strana beffa del destino il nome che porta significa il puro, il giusto. I pubblicani sono considerati da tutti – e con ragione – dei ladri e Zaccheo non solo è un pubblicano, ma è un capo dei pubblicani. Luca inventa addirittura un vocabolo per definirlo meglio: lo chiama arcipubblicano – un termine che in greco non esiste – come dire arciladro. Altro che puro!
Oltre al nome, l’evangelista nota un altro particolare: era piccolo di statura. Non si tratta di una banale informazione sul fisico di Zaccheo. È l’immagine di come egli appare agli occhi di tutti: uno sgorbio insignificante, un fastidioso puntino nero in una società immacolata, uno degli esclusi dal banchetto del regno di Dio.
Zaccheo è ben cosciente della sua condizione, ma l’esclusione dal consesso dei giusti non lo amareggia più di tanto…
È convinto che l’essere accomunato a persone che osservano scrupolosamente la legge, ma che sono ipocrite, supponenti, compiaciute della loro giustizia, non lo avvantaggerebbe di molto…
Da un lato vorrebbe, sì, prendere le distanze dal gruppo dei peccatori fra i quali sa di essere giustamente catalogato, ma quale sarebbe l’alternativa? L’adesione alla setta dei farisei? Non troverebbe la risposta ai suoi tormenti, alle sue inquietudini.
Ha avuto tutto dalla vita, eppure è profondamente insoddisfatto. Ha partecipato a tanti banchetti, ma è ancora alla ricerca del cibo che sazia. Il bisogno che prova è così impellente, così incoercibile che per soddisfarlo è disposto a sfidare i lazzi divertiti di una folla che non l’ha in simpatia.
Vuol vedere Gesù perché – pensa – è forse lui l’unico in grado di capire le sue angosce e il suo dramma interiore e, per poterlo vedere, sale su un sicomoro (v.3).
Stupisce il fatto che si sia arrampicato su un sicomoro. Perché non è salito sul terrazzo di una delle tante case che si affacciano sulla via principale? Forse perché nessuno ha accettato di ospitarlo; non solo non gli è stata aperta alcuna porta, ma non gli è stato nemmeno permesso di calpestare i gradini della scala che, dall’esterno, sale fin sul terrazzo.
Eccolo Zaccheo: l’immondo, il peccatore che tutti rifiutano. Cerca disperatamente Gesù perché ha sentito parlare di lui. Conosce i giudizi pesanti che ha pronunciato sulla ricchezza, ma sa anche che è “l’amico dei pubblicani e dei peccatori” (Lc7,34). Gli è stato riferito che egli “non è venuto a chiamare giusti, ma i peccatori a convertirsi” (Lc 5,32), per questo vuole sapere “chi è“. Anche Erode si è chiesto: “chi è costui?“ e voleva vederlo (Lc 9,9), ma con una disposizione d’animo completamente diversa: lo cercava in modo distaccato, solo per avere un chiarimento riguardo alla sua identità.
Zaccheo invece è pronto a lasciarsi coinvolgere, aspira a un cambiamento radicale della sua esistenza.
In questa ricerca affannosa interviene la folla di coloro che accompagnano Gesù. Come è accaduto con il cieco di Gerico (Lc 18,39), invece di favorire l’incontro con il Maestro, si frappone, diviene un impedimento. Non capisce che sono proprio “i piccoli“, “gli impuri“, gli emarginati che Gesù sta cercando.
La ragione di questo atteggiamento è un difetto di vista.
In Zaccheo anche coloro che seguono Gesù non scorgono che il pubblicano, il peccatore, lo strozzino, null’altro; non riescono a scoprire in lui nulla di buono e di positivo. Lo rifiutano, ma, non potendolo eliminare fisicamente, lo isolano, lo disprezzano, non gli rivolgono nemmeno la parola e questo è il loro modo di ucciderlo. Il loro atteggiamento è discriminatorio come quello dei farisei.
La vista di queste persone “pure“ è tanto difettosa che vede il male ovunque, anche dove non c’è: in Gesù.
Criticano e condannano anche lui perché – pensano – andando “ad alloggiare da un peccatore“, è divenuto impuro (v.7). Osserviamo ora come sono invece limpidi e puri gli occhi di Gesù. Quando giunge sul luogo, egli alza lo sguardo e dice: “Zaccheo scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua“ (v.5). Nessuno della folla ha pronunciato questo nome perché Zaccheo è “l’impuro“. Solo Gesù lo chiama: “Zaccheo-puro!”. Per lui egli è “puro“, è anch’egli un figlio di Abramo! (v.9).
Dall’alto egli cercava di vedere Gesù, ma ora è Gesù che, dal basso, lo vede per primo. Di fronte al peccatore Gesù alza sempre lo sguardo, perché la sua posizione è quella del servo che ha umiliato se stesso “facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce“ (Fil 2,7-8). Anche quando rimane solo con l’adultera Gesù alza il capo verso di lei (Gv 8,10), la guarda dal basso perché chi ama non si atteggia mai a giudice, si abbassa, sceglie l’ultimo posto, si inchina davanti alla persona amata per lavarle i piedi.
A Gerico Gesù si trova in mezzo ai “giusti” che lo seguono, che ascoltano la sua parola, che lo applaudono. Eppure, per istinto, non appena egli scorge un “piccolo”, distoglie immediatamente lo sguardo dal gruppo dei “fedeli” e dirige la sua attenzione al peccatore.
Non si preoccupa delle “convenienze sociali” né delle “sante disposizioni” impartite dai capi religiosi. Sente un bisogno incoercibile di stare con colui che è isolato e disprezzato. “Io devo – dice – fermarmi a casa tua”. Devo, è per me una necessità interiore: se questa sera non sto con te, non riuscirò a prendere sonno.
Che cos’hanno ottenuto coloro che guardavano Zaccheo dall’alto in basso? Nulla. Con le loro condanne senza appello non hanno fatto altro che incattivirlo.
Gli sguardi severi e truci dei censori, dei giudici, degli accusatori impediscono soltanto di incontrare l’unico sguardo che salva, quello tenero di Cristo!
Il racconto si conclude con una cena.
La corsa in avanti (v.4) e i verbi di movimento (entrare, attraversare, correre, salire, scendere in fretta) che caratterizzano la prima parte del racconto (vv.1-7) hanno come meta la casa del peccatore dove Gesù è diretto e “prende dimora” (v.7). Con la sua venuta ha inizio la festa e il banchetto del regno di Dio annunciato da Isaia.
Osserviamo chi è dentro e chi è fuori, chi fa la festa e chi è triste. Dentro dovrebbero esserci i “giusti“, invece essi sono tutti fuori a mormorare, a rodersi dalla rabbia perché non concordano con il tipo di invitati con cui Gesù ha voluto che fosse riempita la sala.
Dentro ci sono gli “impuri” per i quali Gesù è venuto.
C’è, Zaccheo il capo dei peccatori, colui per il quale non c’era speranza di salvezza perché repubblicano e ricco (v.2). Gesù stesso ha appena detto che “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli“ (Lc 18,25). Eppure, ciò che è impossibile per gli uomini è divenuto possibile per l’intervento di Dio (Lc 18,27).
La salvezza non è avvenuta in modo automatico: è stata offerta, sì, gratuitamente, ma Zaccheo ha dovuto accoglierla nella sua casa. Solo così ha finalmente scoperto quella gioia vera che andava disperatamente cercando.
A questo punto ecco che l’amore genera altro amore:, Zaccheo amato gratuitamente, si rende conto che esistono altre persone che hanno bisogno di amore. Si ricorda dei poveri. “Signore,- dice a Gesù – io do la metà dei miei beni ai poveri e, se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto“ (v.8).
A differenza di quello che ha fatto con il notabile ricco (Lc 18,18-23), a Zaccheo Gesù non ha chiesto di “vendere tutto e di distribuire i suoi beni ai poveri“. Non gli ha rivolto alcun rimprovero, non ha posto alcuna condizione. Gli ha chiesto solo di essere accolto.
Zaccheo non è stato ammesso al banchetto del regno perché era buono, è diventato buono dopo, quando si è trovato coinvolto nella festa. Sì è convertito quando ha scoperto che Dio gli voleva bene malgrado fosse un impuro, un povero, un piccolo, anzi, proprio perché era piccolo.
La scoperta di questo amore gratuito è stata la luce che ha dissipato le tenebre che avvolgevano la sua vita e che gli ha fatto capire che solo l’amore e il dono sono fonte di gioia.

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