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Apocalisse non significa catastrofe, ma rivelazione, svelamento.

DiGiuseppe Barone

Nov 13, 2022

Rubrica a cura di Padre Maurizio Raimondo.

Quando si verificano sconvolgimenti politici, ci sono guerre, fame, pestilenze e la situazione di miseria diviene intollerabile, si diffondono facilmente dicerie sulla fine del mondo. Per dare credito alle loro farneticazioni, gli adepti delle sette fondamentaliste si rifanno ad alcuni testi biblici. Il più citato è questo: “Negli ultimi tempi verranno momenti difficili. Gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanitosi, orgogliosi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, senza religione, senza amore, sleali, maldicenti, intemperanti, intrattabili, nemici del bene, traditori, sfrontati, accecati dall’orgoglio, attaccati ai piaceri più che a Dio“ (2Tm 3,1-4). Queste situazioni di disagio si riscontrano in ogni epoca, perciò chi vuole fare previsioni sulla fine del mondo, non ha difficoltà a stabilire delle date. E ciò che fanno i Testimoni di Geova.
Gli ultimi tempi per gli autori del Nuovo Testamento non sono quelli che verranno fra milioni d’anni, ma quelli in cui stiamo vivendo, quelli che sono iniziati con la Pasqua. Non è facile capire il senso di ciò che sta accadendo in questi ultimi tempi. I nostri occhi sono come velati, appannati. Troppe realtà rimangono avvolte nel mistero: disgrazie, assurdità inspiegabili, contraddizioni, segni di morte. Difficile scorgere un progetto di Dio in tutto questo.
Impiegando linguaggio e immagini apocalittiche, Gesù vuol togliere il velo che ci impedisce di vedere il mondo con gli occhi di Dio. Quando sembra annunciare la fine del cosmo, non sta riferendosi “alla” fine del mondo, ma aiutandoci a capire “il“ fine del mondo. Apocalisse non significa catastrofe, ma rivelazione, svelamento. Abbiamo bisogno che la parola di Cristo ci illumini e, fra gli sgorbi tracciati degli uomini, ci permetta di scorgere i tratti del capolavoro che il Signore sta dipingendo.

Prima lettura (Ml 3,19-20)

Il profeta Malachia vive in un tempo molto difficile. Gli esuli deportati a Babilonia nel 587 a.C., sono tornati ormai da parecchi anni. Si sono fidati delle parole dei profeti che avevano assicurato un regno di pace e di giustizia, eccoli invece in una società dove i furti, i soprusi, le violenze contro i deboli non accennano a diminuire. Ci sono tutte le ragioni per perdere la fiducia in Dio e nei mediatori della sua parola, i profeti. Alcuni cominciano a manifestare apertamente la loro delusione e il loro sconforto: “È inutile – dicono – servire Dio. Che vantaggio riceviamo dall’aver osservato i suoi comandamenti o dall’aver camminato in tutto davanti al Signore degli eserciti? Dobbiamo invece proclamare Beati i superbi che, pur facendosi il male, si moltiplicano e, pur provocando Dio, restano impuniti “(Ml 3,14-15).
Malachia sente questo genere di discorsi e non s’indigna. Capisce che quando si ha il cuore amareggiato, ci si sfoga in questo modo. Capisce che il popolo non ha bisogno di rimproveri, ma di parole di consolazione e di speranza, per questo cerca di infondere coraggio. È vero – dice – che le circostanze sono drammatiche, ma non si può vacillare, bisogna continuare ad essere fedeli al Signore e presto si vedrà la differenza fra il giusto e l’empio, fra chi serve Dio e chi non lo serve (Ml 3,18).
È a questo punto che inizia la nostra lettura.
“Sta per venire il giorno rovente Come un forno… “(v.19). Il Signore ha deciso di colpire i malvagi e di far trionfare i giusti, sta per provocare un grande incendio, sta per inviare un diluvio di fuoco, terribile. Coloro che commettono ingiustizia, saranno bruciati come paglia, mentre per i giusti “sorgerà il sole di giustizia con raggi benefici“ (vv. 19-20).
Altri profeti hanno parlato di questo sconvolgimento cosmico e all’immagine del fuoco ne hanno aggiunte altre. Hanno detto: nel momento del passaggio dal mondo antico al mondo nuovo, il sole e la luna cesseranno di dare la loro luce e le stelle cadranno (Gl 2,10-11); quello sarà un giorno di ira, di angoscia, di afflizione, di rovina, di sterminio e gli uomini tremeranno dallo spavento (Sof 1,14-18).
Che cosa significano queste espressioni drammatiche? Si tratta di immagini o, come sostengono i seguaci di certe sette, di informazioni su ciò che accadrà alla fine del mondo?
Di questi cataclismi, di queste catastrofi si parla non solo nell’Antico e nel Nuovo Testamento, ma soprattutto nella cosiddetta letteratura apocalittica che ha raggiunto il suo apice proprio al tempo di Gesù e degli apostoli. Si tratta di immagini colorite che sarebbe ingenuo e fuorviante interpretare alla lettera.
L’ira di Dio non è che un’espressione del suo incontenibile amore. Con questo antropomorfismo – molto frequente nella Bibbia – il profeta vuole mettere in risalto la passione del Signore per il suo popolo che sta soffrendo, vuole ricordare a tutti la serietà del suo amore, il suo coinvolgimento nel patto che lo lega all’uomo e, infine, la sua vittoria contro ogni male, contro ogni ostacolo che si frappone alla sua opera di salvezza.
Il fuoco non è appiccato alle persone, ma scagliato contro tutto ciò che impedisce all’uomo di vivere: l’ingiustizia, l’invidia, la bramosia di arricchire, gli odi, le violenze, la corruzione morale. Il fuoco è l’immagine dell’intervento di Dio nel mondo per porre fine a ogni forma di male. Come nessun filo d’erba secca può sfuggire alle fiamme, così nessuna forma di male – dice il profeta – potrà sottrarsi all’intervento purificatore e Salvatore di Dio.
Il messaggio di questa prima lettura, pertanto, non è di paura, ma di consolazione e di speranza. Quando Malachia afferma che gli empi saranno distrutti, non sta affermando che il Signore un giorno punirà severamente i cattivi, scagliandoli nelle fiamme dell’inferno. Il suo fuoco annienta, come paglia, non gli uomini, ma il male che è in ogni uomo.
Il popolo che ha ascoltato questo messaggio incoraggiante, e forse lo stesso Malachia pensavano a un intervento risolutore di Dio, immediato o a breve termine. Non accade nulla. Ci saremmo allora aspettati che gli israeliti, delusi, avessero accantonato tutti questi oracoli di bene, considerandoli abbagli, allucinazioni, sogni di profeti illusi, invece li hanno conservati e hanno continuato ad attendere con fiducia incrollabile la venuta del “giorno rovente come un forno“ e l’apparizione del “sole di giustizia“.
Solo alla luce della Pasqua, oggi siamo in grado di rileggere e di comprendere questi testi. Il sole di giustizia è Gesù, il giorno rovente come un forno è quello della sua morte e risurrezione, il fuoco che distruggerà tutto il male è lo Spirito che egli ci ha inviato, è la sua Parola, il suo Vangelo che ha già cominciato a rinnovare la faccia della terra.
Il mondo nuovo è il regno di Dio in mezzo a noi, anche se dovremo attendere la fine per verificare il pieno trionfo del bene nel cuore di ogni uomo.

Seconda lettura (2Ts 3,7-12)

Nella comunità di Tessalonica si stavano diffondendo dicerie pericolose: alcuni cristiani fanatici affermavano che questo mondo era ormai giunto alla fine e che Gesù stava per tornare e dare inizio a un mondo e a un’umanità nuova. Queste insensatezze derivavano da presunte visioni e da rivelazioni che qualcuno sosteneva di avere ricevuto da Dio.
Le storie che questi esaltati mettevano in circolazione, turbavano notevolmente la comunità.
Alcuno si erano convinti che, essendo imminente il ritorno di Cristo, non valeva la pena di continuare a lavorare. Perdevano tempo in pettegolezzi e vivevano alle spalle degli altri, gettando nel discredito e nel ridicolo tutti i credenti (v.11).
La situazione diveniva sempre più preoccupante e scandalosa. Paolo fu costretto a intervenire.
Nell’ultima parte della sua seconda lettera richiama decisamente i tessalonicesi. Ricorda loro anzitutto l’esempio della sua vita: io non sono mai stato un fannullone – dice – non sono mai stato di peso a nessuno; ho annunciato il Vangelo gratuitamente e non ho accettato elemosine… “Ben sapete… che ho lavorato con fatica e sforzo, giorno e notte, per non essere di peso ad alcuno di voi“ (v.8).
L’indipendenza economica è un motivo di grande orgoglio per Paolo che più volte nelle sue lettere ritorna sull’argomento (1Ts 2,9; 1Cor 4,12; 2Cor 11,7-10; 12,13-18). Agli anziani di Efeso dice: “Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me, hanno provveduto queste mie mani“ (At 20,33-34).
Dopo aver presentato l’esempio della propria vita, Paolo cita ai tessalonicesi un proverbio popolare: “Chi non vuole lavorare neppure mangi“ (v.10) e, una volta ancora, ricorda ai cristiani la necessità di vivere del proprio lavoro (v.12).
Il “mondo nuovo“ è un dono di Dio, ma per essere costruito, ha bisogno dell’impegno dell’uomo. Chi non lavora, chi non mette a disposizione dei fratelli tutte le sue capacità, non collabora alla costruzione del regno di Dio.
Vangelo (Lc 21,5-19)

Luca scrive il suo Vangelo verso l’anno 85 d.C.: nei cinquant’anni che sono trascorsi dalla morte e risurrezione di Gesù, sono accaduti fatti tremendi. Ci sono state guerre, rivoluzioni politiche, catastrofi, il tempio di Gerusalemme è stato distrutto, i cristiani sono vittime di ingiustizie e persecuzioni. Come spiegare avvenimenti tanto drammatici?
Qualcuno ricorre alle parole del Maestro: “Vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti… metteranno le mani su di voi “(vv. 11-12). Ecco la spiegazione! – si comincia a dire – Gesù aveva previsto tutto.
Le disgrazie (specialmente la distruzione del Tempio di Gerusalemme) sono segni della fine del mondo che si avvicina e del Signore che sta per tornare sulle nubi del cielo.
Il Vangelo di oggi vuole rispondere a queste false attese e corregge l’interpretazione errata che alcuni davano alle parole del Maestro. Già allora il suo linguaggio apocalittico si prestava a essere frainteso. Esaminiamo il brano nei dettagli.
Alcune persone si accostano a Gesù che si trova nel tempio e lo invitano ad ammirarne la bellezza: le enormi pietre di calcare bianco, squadrate in modo perfetto dagli operai di Erode, le decorazioni, gli ex-voto, la vite d’oro che pende dalle pareti del vestibolo e che si estende sempre più attraverso i tralci, offerti dai fedeli, la facciata ricoperta di placche d’oro dello spessore di una moneta… Con ragione i rabbini sostenevano: “Chi non ha visto il tempio di Gerusalemme, non ha contemplato la più bella fra le meraviglie del mondo“.
La risposta di Gesù è sorprendente: “Di tutto quello che ammirate non resterà pietra su pietra“. Stupiti allora gli chiedono: “Quando accadrà questo e quale sarà il segno che ciò sta per compiersi?“ (vv. 5-7).
Gesù non svela la data: non è il suo compito, come non svela il giorno e l’ora della fine del mondo (Mt 24,36). Nel v. 36 l’evangelista Matteo ha appena ribadito che solo il Padre conosce l’ora, ossia quando verrà la fine dei tempi e dunque la parusia. Egli non è un mago, un indovino, per questo non risponde.
Come mai Luca introduce questo episodio? Lo fa per una sua preoccupazione pastorale: vuole mettere in guardia le sue comunità da chi confonde i sogni con la realtà. Alcuni esaltati attribuivano a Gesù predizioni che erano soltanto frutto di speculazioni stravaganti.
L’evangelista invita i cristiani a smettere di inseguire favole e a riflettere sull’unica cosa che deve interessare: che cosa fare, concretamente, per collaborare all’avvento del mondo nuovo, del regno di Dio.
I “falsi profeti” hanno sempre rappresentato un pericolo serio per le comunità cristiane e Luca ricorda che anche Gesù si è premurato di mettere in guardia i suoi discepoli da coloro che assicurano che la fine del mondo è vicina. Ha raccomandato vivamente: “non seguiteli!“ (vv.8-9). La fine non verrà presto; la gestazione del mondo nuovo sarà difficile e lunga.
Che cosa accadrà nel tempo che intercorre tra la venuta del Signore e la fine del mondo? Gesù risponde a questa domanda ricorrendo al linguaggio apocalittico. Parla di sollevazioni di popoli contro popoli, di terremoti, carestie e pestilenze, di fatti terrificanti, disegni grandi nel cielo (vv. 10-11). Questi verranno ripresi ed esplicitati poco dopo: “Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte“ (21,25-26). Che intende dire?
Una delle idee ricorrenti al tempo di Gesù era che il mondo fosse ormai troppo corrotto e che presto sarebbe stato sostituito da una realtà nuova, fatta germogliare da Dio. Si diceva che nel momento del passaggio dall’antico al nuovo, gli uomini sarebbero stati colti da grande spavento, i popoli e le nazioni sarebbero stati sconvolti, ci sarebbero state violenze, malattie, disgrazie, guerre. Il sole sarebbe apparso durante la notte e la luna durante il giorno; gli alberi avrebbero cominciato a versare sangue, le pietre a spezzarsi e a lanciare urla.
Questo linguaggio, queste immagini erano molto note.
Gesù se ne serve per dire ai discepoli che è imminente il passaggio fra le due epoche della storia. Il suo è un annuncio di gioia e di speranza: chi è nel dolore e attende il regno di Dio, deve sapere che sta per spuntare l’aurora di un nuovo, splendido giorno. Ecco la ragione per cui esorta i discepoli a non spaventarsi: non vi terrorizzate (v.9) e, un poco oltre, raccomanda: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina “(Lc 21,28).
Dopo aver invitato a considerare il tempo di attesa del suo ritorno come una gestazione che prepara il parto, Gesù preannuncia le difficoltà che i suoi discepoli dovranno affrontare (vv.12-19).
Quale sarà il segno che il regno di Dio sta nascendo e per instaurarsi del mondo? Non i trionfi, gli applausi, l’approvazione degli uomini, ma le persecuzioni. Gesù prevede per i suoi discepoli: la prigione, le calunnie, il tradimento da parte degli stessi familiari e dei migliori amici. In queste situazioni difficili essi potranno essere tentati di scoraggiarsi, penseranno di aver sbagliato le scelte della loro vita.
Perché sopportare tante sofferenze e fare tanti sacrifici? Tutto inutile: gli empi continueranno sempre a prosperare, a commettere violenze, ad avere la meglio sui giusti. Gesù risponde che questo non accadrà! Dio guida gli avvenimenti della vita degli uomini e orienta anche i progetti dei malvagi al bene dei suoi figli e alla instaurazione del regno. “Mettetevi bene in mente di non preparare la vostra difesa“ raccomanda ancora. Che significa? I discepoli dovranno forse attendersi liberazioni miracolose?
No. Gesù li mette in guardia dal pericolo di fidarsi dei ragionamenti e dei calcoli che sono soliti fare gli uomini. Se i suoi discepoli crederanno di potersi difendere, utilizzando la logica di questo mondo, invece di quella di Dio, si porranno sullo stesso piano dei loro oppositori e perderanno. Dovranno accettare serenamente il fatto che essi non possono ricorrere ai metodi di chi li perseguita: la calunnia, l’ipocrisia, la corruzione, la violenza. Dovranno convincersi che la loro forza sta in ciò che gli uomini considerano fragilità e debolezza. Sono pecore in mezzo ai lupi, non possono travestirsi da lupi. Se davvero saranno coerenti con le esigenze della loro vocazione, sarà Gesù, buon pastore a difenderli.
Darà loro una forza alla quale nessuno potrà resistere: la forza della verità, dell’amore, del perdono.
Infine Gesù richiama un’espressione molto usata al suo tempo: “Nemmeno un capello del vostro capo perirà“. Non promette di preservare i suoi discepoli da qualunque sventura e pericolo. I cristiani perseguitati non devono attendersi liberazioni miracolose: perderanno i loro beni, il lavoro, la reputazione e forse anche la stessa vita a causa del Vangelo. Tuttavia, nonostante le apparenze contrarie, il regno di Dio continuerà ad avanzare. Coloro che hanno sacrificato se stessi per Cristo, forse non coglieranno i frutti del bene che hanno seminato, ma devono coltivare la gioiosa certezza che i frutti saranno abbondanti. In questo mondo non verrà riconosciuto il valore del loro sacrificio. Saranno dimenticati, forse maledetti, ma Dio – ed è il suo giudizio quello che conta! – darà loro la ricompensa nella risurrezione dei giusti.

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