di P. Maurizio Raimondo (Patriarca)
È la minaccia che viene impiegata ancora da qualche predicatore, come deterrente – sempre meno efficace a me pare – per distogliere dal male.
L’immagine di Dio giudice è presente nel Vangelo, soprattutto in quello di Matteo in cui compare quasi a ogni pagina. Che senso ha?
La resa dei conti finali è troppo lontana e troppo aleatoria per esercitare un impatto sulle scelte di oggi e, soprattutto, questa sentenza inappellabile, di tipo forense, pronunciata da Dio al termine della vita, non servirà più a nessuno: a quel punto sarà impossibile a chiunque recuperare il tempo perduto o impiegato male. Ci interessa un altro giudizio di Dio: quello che egli pronuncia nel presente.
Di fronte alle scelte che tutti noi siamo chiamati a fare, ascoltiamo tanti “giudizi“: quello degli amici, della pubblicità, della moda, della vanità, della gelosia, dell’orgoglio, della morale corrente… e c’è anche – spesso flebile, tacitato, sopraffatto da altre “sentenze“- il giudizio di Dio, l’unico che indica il cammino della vita, l’unico che alla fine si rivelerà valido.
Vigilare significa saper discernere, essere in grado di cogliere questo giudizio che giunge puntuale, anche se nei modi e momenti più inattesi.
Prima lettura (Is 2,1-5)
Almeno una volta l’anno gli israeliti dovevano recarsi al tempio di Gerusalemme per partecipare alle feste, offrire sacrifici e sciogliere voti.
Isaia – il profeta nato e cresciuto nell’ambiente aristocratico e colto della capitale – ha osservato ogni giorno gruppi di pellegrini salire al monte del Signore“ in mezzo ai canti di gioia di una moltitudine in festa” (Sal 42,5). Uno spettacolo commovente che ha suscitato nel suo animo sensibile i sogni, le attese e le speranze che ci ha consegnato nel magnifico poema che oggi ci è proposto come prima lettura.
I tempi sono difficili, la situazione è drammatica per il piccolo regno di Giuda, aggredito da una coalizione di popoli che lo vogliono coinvolgere in una guerra temeraria contro l’Assiria. L’esercito nemico si avvicina e “il cuore del re Acaz e il cuore del suo popolo cominciarono ad agitarsi, come si agitano i rami del bosco per il vento“ (Is 7,2).
Tutti sono sbigottiti, solo Isaia mantiene la calma e invita alla fiducia in Dio: Gerusalemme non sarà conquistata – assicura – poi, come rapito in estasi e con lo sguardo fisso verso un futuro lontano, pronuncia il suo oracolo.
Ecco – dice – vedo il monte del tempio del Signore elevarsi; diviene il punto più alto della terra; scorgo una folla immensa di pellegrini di ogni popolo, razza, lingua e nazione (v.2) che si dirige verso il santuario. Non va a offrire sacrifici, olocausti e incensi, ma ad ascoltare la parola del Signore, vuole apprendere “le sue vie“ (v.3).
Frutto di questo avvicinarsi al monte del tempio del Signore è la pace, descritta con immagini suggestive (v.4).
Gli strumenti di morte – le spade e le lance – sono trasformati in mezzi di produzione, in vomeri e in falci.
I popoli distruggono le armi e pongono fine alle guerre. È l’auspicio del disarmo universale, è il regno della giustizia, delle benedizioni di Dio.
Messaggi simili – almeno in apparenza – sono già stati pronunciati. Sono innumerevoli le iscrizioni ritrovate su stele e i testi letterari che celebrano le imprese gloriose dei faraoni e dei sovrani dell’antico medio Oriente: annunciano tutti la pace.
L’ascesa al trono del nuovo re era sempre salutata come l’inizio dell’età dell’oro. Un canto su Ramses IV, in un linguaggio quasi messianico, proclama: “Coloro che avevano fame sono stati saziati e sono allegri, coloro che erano ignudi sono vestiti di lino fine, coloro che erano in prigione sono stati liberati, coloro che litigavano in questo paese, si sono rappacificati“.
Eppure, proprio nel giorno in cui si autoproclamava pacificatore del mondo, il faraone scagliava ritualmente una freccia verso ognuno dei quattro punti cardinali: gesto con cui intendeva terrorizzare chiunque avesse in mente di attaccare il suo paese. Prometteva la pace, ma continuava a ritenerla possibile solo con la minaccia dell’impiego della forza, con l’ostentazione della potenza delle armi.
Isaia annuncia una pace diversa, non basata sulle astuzie, sui calcoli umani, ma sull’adesione di tutti i popoli – convocati nella “città della pace“ – dalla parola del Signore. Questa parola cambia i cuori; gli uomini che la accolgono cessano di costruire delle Babele e rinunciano per sempre all’aggressività e all’uso delle armi.
I cristiani hanno visto realizzarsi questa profezia quando, in Gesù, è apparsa nel mondo “la Parola“.
Egli “è la nostra pace, è venuto ad annunziare la pace, pace a coloro che erano lontani e pace a coloro che erano vicini“ (Ef 2,14. 17).
Fin dai primi secoli, i giùdei hanno però smentito questa interpretazione. Dicevano: Gesù di Nazaret non può essere il Messia, il pacificatore annunciato dal profeta, perché il mondo nuovo non è ancora apparso. Non continuano forse gli odi, le violenze, le guerre, le disgrazie, i lutti e i pianti?
L’obiezione è seria, ma nasce da un malinteso. Il regno di Dio, la pace universale non si instaura miracolosamente, senza la collaborazione da parte dell’uomo e si sviluppa lentamente, come il piccolo seme che impiega anni per divenire un grande albero.
Gli “ultimi giorni“ di cui parla il profeta (v.2) sono già iniziati, le sue promesse hanno cominciato a compiersi nel Natale. I Padri della chiesa dei primi secoli erano ben coscienti di questo.
“Gli altri uomini – dichiarava Origene – continuano a impugnare la spada, ma noi siamo un popolo che si rifiuta di imparare l’arte della guerra; attraverso Gesù siamo diventati figli della pace”(Origene, Contra Celsum, V,33).
Giustino rispondeva al rabbino Trifone: “Sebbene fossimo ben esperti in fatto di guerra, di assassinio e di ogni specie di mali, abbiamo trasformato su tutta la terra i nostri strumenti di guerra: le spade in aratri, le lance in falci; e ora costruiamo il timor di Dio, la giustizia, l’umanità, la fede e la speranza, quella speranza che ci viene dal Padre” (Giustino, Dialogo con Trifone 110,2-3).
Ireneo era ancora più esplicito: “Ormai non vogliamo più combattere ma, se qualcuno ci colpisce, porgiamo l’altra guancia. Se tutto questo avviene, allora i profeti non hanno parlato di nessun altro che di colui che ha realizzato tutte queste cose: Gesù di Nazaret, il nostro Signore “Ireneo, Adv. Haer., IV 34,4).
Il mondo di pace si instaurerà certamente, ma la sua costruzione sarà tanto più rapida quanto più decisa sarà la scelta dell’umanità di volgersi a Cristo, di lasciarsi istruire dalla sua parola.
La Parola di Dio non usa solo il linguaggio della pace, dà anche le direttive come costruire la pace.
Seconda lettura (Rm 13,11-14)
Per descrivere la vita dei cristiani, Paolo ricorre alle immagini bibliche della luce e delle tenebre. Prima del battesimo – dice – essi camminavano nelle tenebre della notte e compivano quelle opere che ci si vergogna di fare alla luce del sole: crapule, gozzoviglie, immoralità, contese… Azioni che offuscano la mente, sclerotizzato il cuore e impediscono di cogliere i giudizi di Dio sulle realtà di questo mondo. Dopodiché il battesimo le hanno abbandonate e sono entrati nel regno della luce; si sono spogliati del vestito vecchio e hanno indossato l’abito nuovo: Cristo. In loro, oggi, è possibile contemplare le opere, lo sguardo, le parole, il sorriso del Maestro perché sono avvolti dalla persona di Gesù come di un manto.
Paolo tuttavia constata che le tenebre, anche fra i cristiani, non sono ancora scomparse; è cosciente che una notte cupa grava ancora sul mondo: continuano le guerre, le vendette, le invidie…, ma non si lascia prendere dallo sconforto, come spesso invece accade a noi. Le sue parole sono un invito alla speranza: la notte è già avanzata, anzi, sta per finire; un giorno nuovo sta per sorgere, un’umanità nuova sta per iniziare.
Che fiducia mostra Paolo dopo nemmeno trent’anni di cristianesimo!
Oggi i problemi esistono e sono drammatici. Il mondo sta andando verso il disastro ecologici e e demografico – ammoniscono in molti – si assiste ovunque a una perdita di valori… È vero, tuttavia non è possibile, dopo duemila anni di cristianesimo, vedere solo tenebre e guardare in modo così pessimistico al futuro. Già il Qoelet ammoniva: non è saggio chi afferma che i tempi antichi erano migliori del presente (Qo 7,10).
Se avessimo lo sguardo dell’Apostolo, se credessimo, come lui, nella presenza dello Spirito, scorgeremmo, anche nei momenti più bui, i segni luminosi del mondo nuovo che è iniziato.
Chi erano i veri mercanti del Tempio di allora?….Anna e Caifa e buona parte della classe sacerdotale! Essi infatti erano tutti proprietari di mandrie e armenti e avevano gli appalti di tutte le macellerie in Gerusalemme. Il gettito economico che gestivano era immenso. Essi vendevano al popolo gli armenti da sacrificare nel Tempio, ne prendevano la metà che rimettevano in vendita attraverso le loro macellerie, consumavano gratuitamente, loro, parenti e amici le carni sacrificate. Tassavano il cambio delle monete impure, non ammesse nel tempio perché pagane con l’effige del “Divo Cesare”, con l’unica moneta ammessa e battuta dallo stesso Tempio. Un giro di danaro e affari colossale che rendeva la classe sacerdotale sempre più potente e influente persino sotto la dominazione di Roma. Il popolo soffriva e viveva in povertà! Cristo con la sua azione, non attacca i poveri che al soldo del Tempio lavoravano nella vendita, (quindi non i bancari ma i banchieri del tempo) la classe sacerdotale, fatta da veri mercanti (commercianti – imprenditori – usurai spregiudicati) che lucravano nel e del Tempio, imponendo al popolo una religiosità formale, fatta di prescrizioni e divieti, impossibili da rispettare: “Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito”(Mt 23,4) e che producevano la necessità di “sacrificare per espiare”, secondo le loro stesse regole che fruttavano danaro e benessere. Compreso ciò, si capisce come Cristo con questa azione “sovversiva” contro gli interessi della potentissima classe sacerdotale abbia sottoscritto la propria condanna: «Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera» (Gv. 50).L’azione di Cristo non è rivolta quindi contro quanti al banco eseguivano il loro lavoro servile ma contro l’intera classe sacerdotale che manipolando le coscienze con inutili precetti e divieti, si era costituita come classe potente, straricca e manipolatrice! I ceti ecclesiastici odierni sono scevri da tale tentazione ed esercizio? (????) Quale Tempio oggi ha sostituito il ricchissimo è potentissimo Tempio di Gerusalemme del quale non è rimasto “pietra su pietra”? (Lc 21 5-19). Quale classe sacerdotale ha assunto oggi i difetti di quella di Gerusalemme? Perché circola da sempre tra il popolo romano il detto: “Curia Romana non petit ovem sine lana”? (cfr. Santa Brigida).