di Padre Maurizio Raimondo.
Un giorno alcune mamme presentano a Gesù i loro bambini affinché egli li prenda fra le braccia e li accarezzi (Mc 10,13). I discepoli che giudicano sconveniente questo eccesso di familiarità, li scacciano in malo modo e Gesù reagisce: “A chi è come loro – dichiara – appartiene il regno di Dio“. L’episodio è riferito dai tre sinottici, ma con una leggera, significativa variante. Mentre Marco e Matteo parlano di bambini, Luca dice che a Gesù sono stati presentati dei neonati (Lc 18,15).
Se i bambini possono aver fatto qualcosa di amorevole, possono avere, in qualche modo, “meritato“ l’amore dei genitori, i neonati sono coloro che non hanno fatto assolutamente nulla, sono l’immagine di chi è in grado solo di ricevere, gratuitamente. I neonati vengono additati da Gesù a modello dell’atteggiamento da assumere nei confronti di Dio. Essi si collocano agli antipodi del fariseo che può vantarsi con orgoglio del bene che ha fatto.
Non può entrare nel regno di Dio – dice Gesù-chi non diviene come un neonato, chi non si rende conto di dovere sempre e tutto a chi gli ha dato e continua a donargli la vita.
Nel momento in cui si pensa di poter attribuire a sè qualche opera buona, già non si è più neonati e ci si auto-esclude dal regno di Dio. “Che cosa mai possiede – chiede Paolo – che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?“ (1Cor 4,7).
Prima lettura (Sir 35,12-14.16-18)
La legge è uguale per tutti, ma non tutti possono pagarsi dei buoni avvocati e i giudici non sempre sono imparziali.
Dio che, come sappiamo, è chiamato a pronunciare il giudizio definitivo, inappellabile sull’uomo, assomiglia ai giudici di questo mondo?
Nell’Antico Testamento viene dato quest’ordine a colui che in Israele deve amministrare la giustizia: “Non accetterai regali, perché il regalo acceca gli occhi dei saggi e corrompe le parole dei giusti (Dt 16,19). Disposizione saggia! Da un giudice che riceve regali non c’è certo da aspettarsi l’imparzialità.
In una società in cui è facile addomesticare le sentenze dei processi con un po’ di denaro, qualcuno può supporre che anche Dio, così come i giudici umani, possa essere corrotto, che possa, con qualche regalo, diventare socio in affari. Come?
Prendiamo il caso di un latifondista che non paga i suoi braccianti: sa di commettere un torto e sa che un giorno dovrà rendere conto al Signore. Allora che fa? Si reca al tempio, dà una buona mancia al sacerdote di turno e offre a Dio un grasso agnello o un giovane toro. È convinto che, dopo aver ricevuto un dono così generoso, il Signore gli diventerà amico, chiuderà un occhio sulle ingiustizie che commette, non lo colpirà con i suoi castighi, non invierà né malattie, né siccità, né la grandine per distruggere i suoi raccolti.
Il Siracide attacca duramente questa falsa religione: “Non cercare di corrompere il Signore con doni, non accetterà, non confidare su una vittima ingiusta “(Sir 35,11). Poi – ed è il brano contenuto nella nostra lettura – spiega le ragioni della sua condanna: “il Signore è un giudice che non fa preferenze di persone“ (v.12).
Se egli non commette parzialità – pensiamo – egli premia i buoni e castiga i malvagi, senza discriminare fra poveri e ricchi. Invece – ecco la sorpresa! – Per lui non fare preferenza di persone significa schierarsi dalla parte del povero. Questa è la sua giustizia!
Amicizie, parentele, regali, minacce, elevata posizione sociale… nulla contano davanti a lui. L’unica condizione che lo smuove è la povertà, il bisogno dell’uomo: “Egli ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano né quella della vedova che si sfoga nel lamento “(vv. 13-14). Le loro preghiere attraversano le nubi e non si fermano finché non raggiungono il trono di Dio (vv.15-18).
Quando davanti a lui si presenta chi non ha alcun merito da esibire, uno che può contare solo sulle proprie miserie, egli si commuove e pronuncia sempre una sentenza di salvezza.
Seconda lettura (3Tm 4,6-8. 16-18)
Nella Bibbia ci sono molti discorsi di addio posti sulla bocca dei grandi personaggi. Li hanno pronunciati, prima di morire, Giacobbe, Mosé, Giosuè, e anche Gesù (Gv 14-17, Pietro (2Pt 1,12-14) e Paolo (At 20,17-35). Il brano della lettera a Timoteo che oggi ci viene proposto appartiene a questo genere letterario.
L’apostolo ormai vecchio e stanco, si trova rinchiuso in una prigione di Roma. Vede avvicinarsi il giorno in cui dovrà lasciare questo mondo, fa un bilancio della sua vita e volge uno sguardo verso il futuro.
Il tono è commovente e le immagini molto efficaci.
Ha combattuto la buona battaglia. Sì è volutamente impegnato in conflitti drammatici in cui si affrontavano luce e tenebra, verità e menzogna, giustizia e forze di peccato e di morte. Scrivendo ai Corinzi, ha fatto un drammatico elenco di ciò che ha dovuto sopportare in questa lotta per la giusta causa: “Cinque volte dai giùdei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità“ (2Cor 11,24-27).
È in prigione e sembra uno sconfitto. Non importa, sì è schierato dalla parte di Cristo e sa di aver fatto la scelta migliore.
Ha concluso la corsa. Durante la gara si è fatto onore ed è sicuro che il Signore gli consegnerà la corona di alloro.
Non parla di meriti, accumulati con sforzi e fatiche, (sarebbe un concetto incompatibile con la sua teologia), ma della certezza di essersi affidato alla persona giusta, al Signore Gesù che non deluderà né lui né coloro che, attendono con amore la sua manifestazione” (v.8).
Ha tenuto fede agli impegni assunti. La fede è stata per Paolo un lungo travaglio, una nuova nascita, ma, una volta conquistata, è stata sempre mantenuta.
Ha condotto una vita integra e ha portato a compimento la missione di apostolo alla quale Cristo lo aveva chiamato.
Il suo sguardo si volge anche al futuro: “Il mio sangue sta per essere sparso in libagioni ed è giunto il momento di sciogliere le vele“ (v.6). La sua fedeltà a Cristo sarà convalidata dal più grande gesto di amore: il dono della vita. La sua morte sarà, come quella del Maestro, un sacrificio espiatorio e il suo sangue “una libagioni“ sull’altare della fede.
L’immagine della nave che scioglie le vele, mostra l’incrollabile convinzione che la morte non è un inabissarsi, ma un dirigersi verso nuovi, splendidi lidi.
Una trentina d’anni dopo, Clemente, un eminente cristiano di Roma, parlerà di lui così: “Dopo aver insegnato la giustizia a tutto il mondo e aver raggiunto gli estremi confini dell’Occidente, rese testimonianza davanti alle autorità, così è stato tolto dal mondo e assunto nel luogo santo, divenuto il più grande esempio di perseveranza” (1Corinzi V,7).
Vangelo (Lc 18,9-14)
Chi racconta una parabola, tende sempre una specie di tranello ai suoi ascoltatori: li spinge, senza che essi se ne avvedano, a schierarsi a favore dell’uno o dell’altro personaggio della storia. Poi, quando essi sono pienamente coinvolti, tira la conclusione morale.
Leggendo la parabola di oggi, si può perdere il messaggio perché si rischia di identificarsi con il personaggio sbagliato.
Siamo convinti di non avere nulla da spartire con il fariseo ipocrita, antipatico, pieno di orgoglio e di presunzione, che disprezza con arroganza gli altri e si sente giusto senza esserlo realmente. Le nostre simpatie sono tutte per il pubblicano il quale, poveretto, ha sì combinato qualche malefatta, ma ha un cuore d’oro, è pentito e dunque merita amore e comprensione. Ci convinciamo che questa parabola è rivolta a coloro che non sentono avversione per il fariseo.
La parabola non è così semplice come appare a prima vista.
Contempliamo anzitutto il fariseo che, assumendo l’atteggiamento normale (non orgoglioso) del pio giudeo, prega in piedi (cosa che del resto fa anche il pubblicano). Nessuna ostentazione dunque, nessuna ipocrisia.
Il suo monologo è una preghiera e quando si dialoga con Dio, quando gli si apre il cuore, non si può certo mentire, si dice solo ciò che si sente. Basta rileggere con attenzione e senza preconcetti i vv. 11-12 e subito ci si rende conto che ci troviamo di fronte a una persona retta, integra, onesta, che osserva fedelmente i precetti della legge ed evita scrupolosamente tutti i peccati (i furti, le ingiustizie, gli adulteri).
Fa addirittura più di quanto è prescritto.
La legge ordina di digiunare un giorno l’anno (Lv 16,29) e il fariseo digiuna due volte per settimana (di martedì e di giovedì) per riparare i peccati degli altri e attirare sul suo popolo le benedizioni di Dio. La legge stabilisce che, al momento del raccolto, il contadino consegni immediatamente ai sacerdoti la decima parte dei prodotti principali: il grano, il vino, l’olio, i primogeniti del gregge (Dt 14,22-27). Si tratta di offerte destinate a beneficiare i poveri, a sostenere le spese del tempio e a formare i giovani rabbini. Purtroppo i contadini – e il fariseo lo sa bene – fanno i furbi e, se appena possono, non adempiono a quest’obbligo. Per compensare il loro eventuale (anzi, probabile!) furto, paga lui la decima, di tasca propria, ogni volta che acquista i loro prodotti. Insomma, può tranquillamente dire a Dio: “Mio Signore, nel mondo ci sono tanti uomini malvagi, ma non te la prendere, c’è gente come me che bilancia le loro malefatte!“.
Per quanto si cerchi qualche mancanza in quest’uomo, non si scopre alcunché di riprovevole. È orgoglioso della sua rettitudine, si contrappone agli altri uomini e prende le distanze dei peccatori. Questo – è vero – suscita un certo fastidio, ma non si tratta di colpe gravi e poi ha parecchie ragioni per sentirsi migliore degli altri. Ce ne fosse di gente così, onesta, giusta, irreprensibile! Perdoneremmo volentieri anche un po’ di orgoglio.
Anche Paolo – che pure attacca duramente la teologia dei farisei – dà loro atto che sono persone zelanti (Rm 10,2).
In stridente contrasto con questo primo personaggio, ecco comparire sulla scena il secondo, un pubblicano, colui che ha immediatamente attirato le nostre simpatie per la sua umiltà.
Costui sì che ci imbroglia, non è per niente il tipo mansueto e bonario che appare a prima vista. È un ladro matricolato, uno sfruttatore odioso, uno sciacallo.
Non estorce denaro ai ricchi, dissangua i poveri; impone tasse esorbitanti ai più miserabili fra i contadini, a coloro che non hanno nemmeno il pane da dare ai figli piccoli. Non ha nulla di buono da offrire a Dio. È carico soltanto di peccati.
La legge dice che, per salvarsi, costui deve restituire tutto ciò che ha rubato, più il 20% di interessi e abbandonare immediatamente la sua infame professione. Le condizioni sono tanto difficili da attuare che i rabbini affermano concordi che per i pubblicani la salvezza è praticamente impossibile.
Adesso che abbiamo chiarito chi sono i due personaggi da che parte stiamo? Spero si sia un po’ affievolita la simpatia per il pubblicano e che sia stata ridimensionata anche l’avversione nei confronti del fariseo.
Se questa è la nostra nuova disposizione d’animo, proviamo a concludere la parabola in modo sensato e logico.
Gesù dovrebbe esprimersi più o meno così: il fariseo sia un po’ più umile; il suo disprezzo per gli altri indispone un po’, ma, per il resto, è un modello da imitare. Con le sue opere, con la sua rettitudine ha meritato la giustificazione. A lui spetta di diritto il paradiso.
Quanto al pubblicano: il suo pentimento – certo – lo colloca sulla buona strada, ma non bastano gli occhi bassi e un atto di dolore così generico per essere a posto con Dio e con gli uomini. Ci vuole altro: restituisca ai poveri i soldi che ha rubato e adempia le prescrizioni della legge, perché i castighi di Dio incombono su di lui e cadranno di sicuro, terribili e repentini.
Se concordiamo con questa conclusione della parabola, allora abbiamo la disposizione giusta per ricevere la lezione di Gesù: “Io vi dico: il pubblicano tornò a casa sua giustificato a differenza dell’altro”. Con questa sentenza non possiamo essere d’accordo. Come si può condannare chi si è comportato bene e dichiarare giusto un peccatore? I nostri criteri di giustizia vengono stravolti. Vediamo di chiarire.
Il rovesciamento del giudizio non riguarda il comportamento morale dei due.
Gesù non dice che il pubblicano era buono e il fariseo cattivo e bugiardo. Non dice che l’uno era fondamentalmente virtuoso, mentre l’altro era un peccatore che riusciva a mantenere nascoste le sue colpe. Dice solo che il primo “fu giustificato“, cioè, fu reso giusto da Dio, mentre il secondo se ne tornò a casa sua come prima, con tutte le sue innegabili opere buone, ma senza ottenere da Dio che sia reso giusto. Questo è il punto.
Qual è l’errore del fariseo? Sbaglia perché si colloca davanti al Signore nel modo scorretto: va al tempio, portando con sé un carico di buone opere, accumulate con rigorose penitenze e attraverso l’osservanza scrupolosa di tutti i comandamenti. È convinto che questo basti a meritargli la giustificazione. È come se dicesse al Signore: guarda che vita meravigliosa ti presento! Dì la verità: ti ho stupito! Non te l’aspettavi di avere un adoratore così fedele, dichiara che sono “giusto“!
Si noti: il fariseo non chiede a Dio di essere reso giusto. Da Dio pretende solo che dichiari, che riconosca – come fa un notaio ineccepibile – la giustizia che egli ha saputo costruirsi con le sue mani. Non capisce che tutte le sue opere buone, messe insieme, non gli conferiscono alcun diritto alla salvezza. Chi fa il bene non merita assolutamente nulla, deve solo ringraziare il Signore che lo ha guidato sulla strada della felicità. Non sono le opere buone che rendono giusti. Le opere buone ci umanizzano, sono come i frutti che rivelano che l’albero è pieno di vita. Ma non sono i frutti che fanno vivere l’albero. Davanti a Dio l’uomo si trova sempre a mani vuote. Non può esibire nulla di suo, non ha nulla che lo renda degno della compiacenza divina.
Chi ragiona come il fariseo non è cattivo, è solo ingenuo. Si comporta come il figlio che pensa di “meritare“ l’eredità del padre perché è uno studente modello, non si droga, non commette sciocchezze. Se agisce in modo corretto, sta solo facendo il proprio bene e deve ringraziare il padre che lo ha educato. L’eredità appartiene al padre e può soltanto essere ricevuta in dono, non guadagnata.
Il pubblicano non è un modello di vita virtuosa. È il povero che sa di poter offrire a Dio soltanto il suo cuore “spezzato e abbattuto“ che – come recita il salmo – il Signore non disprezza (Sal 51,19). È l’affamato che viene ricolmato di beni, mentre il ricco è rimandato a mani vuote (Lc 1,53). Egli non corre nemmeno il pericolo di illudersi che le buone azioni gli conferiscano il diritto di avanzare pretese, perché non ne ha.
Il fariseo non deve rinunciare alla sua vita irreprensibile, ma alla falsa immagine di Dio che ha in mente: un contabile che prende nota delle opere buone e cattive degli uomini, un distributore di premi e castighi. Da questa immagine deforme di Dio derivano tutti gli altri guai, il primo fra tutti il bisogno di creare una barriera divisoria fra giusti e peccatori. Il suo stesso nome “fariseo“ significa separato.
Chi pensa di poter accumulare meriti davanti a Dio finisce inevitabilmente per disprezzare gli altri, non vuole avere più nulla a che vedere con gli empi. Chi si sente giusto è convinto di poter addirittura coinvolgere Dio in questa separazione, vorrebbe iscriverlo nel suo gruppo, nel club dei giusti, vorrebbe farlo diventare un fariseo. Dio non ci sta. Se proprio deve scegliere… si mette con i peccatori.
L’ultima frase: “Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato“ (v.14) sembra un invito a considerare effimeri i trionfi in questo mondo e a coltivare la speranza che nella vita futura le posizioni verranno capovolte. Nel contesto in cui è collocata, l’affermazione di Gesù è rivolta a chi confida nei propri meriti, al fariseo che si esalta per le proprie buone azioni e le considera un motivo di vanto di fronte a Dio. Costui, se non vuole trovarsi a mani vuote (essere umiliato), deve accettare di farsi piccolo, povero fra i poveri, debitore fra i debitori. Quando avrà assunto questo atteggiamento di autentica umanizzazione, sarà nella condizione di poter essere riempito di doni dal Signore, come è accaduto a Maria, la povera, umile serva nella quale l’Onnipotente ha operato meraviglie (Lc 1,48-49).
A questo punto diventa importante il versetto (v.9) che chiarisce a chi è diretta la parabola.
I destinatari sono “alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri“. Costoro non sono i farisei del tempo di Gesù, ma i cristiani delle comunità di Luca. È in costoro che si è insinuata la pericolosa mentalità farisaica. La parabola dunque è diretta ai cristiani di ogni tempo, perché l’idea di poter “meritare“ davanti a Dio è profondamente radicata nell’uomo.
Nessuno è completamente immune da questo “lievito“ che inquina e corrompe la vita delle comunità. (Mc 8,16).